sabato 25 aprile 2009

PASSIONE PER LA MUSICA DI NEW ORLEANS

IL FENOMENO.
SEMPRE VIVA A MILANO LA PASSIONE PER LA MUSICA DI NEW ORLEANS
Abbiamo il complesso del jazz
Gruppi vecchi e nuovi nel segno del Dixieland

Abbiamo il complesso del jazz.
Gruppi vecchi e nuovi nel segno del Dixieland ,serissima musica da divertimento, cosi' potrebbe essere definito, nelle sue multiformi stagioni e incarnazioni, il jazz tradizionale rielaborato all' ombra della Madonnina (come in tante altre citta' italiane e in tutto il mondo).
Che sia chiamato Dixieland, con termine onnicomprensivo, o "trad" come vogliono le conventicole dei cultori piu' affezionati; che si rifaccia a Louis Armstrong, ambasciatore del jazz e gigantesco artista, o a Bix Beiderbecke, il "giovanotto con la tromba" portato via da una polmonite nel 1931, a 28 anni; che lo suonino veterani pionieri musicalmente analfabeti o giovani diplomati al Conservatorio, la sostanza non cambia di molto.
Questo jazz ruspante e affermativo continua a rappresentare un' occasione d' incontro nella quale la nostalgia si unisce al senso della scoperta, la piacevolezza alla constatazione che qui c' e' ben piu' dell' intrattenimento.
La storia del "jazz revival" milanese e' lunga e avventurosa.
Comincia nell' immediato dopoguerra, con la voglia di rifarsi dopo decenni di autarchia: il jazz, con il cinema americano, e' il simbolo della nuova liberta' , e mentre in America i musicisti stanno inventando la rivoluzione del bebop, noi ci accontentiamo dello stile New Orleans e dello swing.
Ma mentre quest' ultimo stile e' facilmente assimilabile alle canzonette, il "vero" jazz raccoglie le istanze piu' intellettuali e non a caso in Francia sara' adottato dagli Esistenzialisti. Il "la", alla fine degli anni Quaranta, viene dato dalla Original Lambro Jazz Band (i nomi di queste orchestre sono spesso gustosamente autoironici), una formazione che si rifa' al grande King Oliver e la cui importanza per gli sviluppi del jazz milanese e' centrale. Grazie ai suoi sforzi infatti diverranno popolari i primi locali aperti a questa musica, l' Arethusa e il Santa Tecla, dove si formeranno anche molti strumentisti "moderni". Nei primi anni Cinquanta nascono la Milan College Jazz Society di Carlo Bagnoli e Giorgio Alberti e la Riverside Jazz Band di Lino Patruno, gruppi che si fonderanno insieme una quindicina d' anni dopo, negli anni piu' bui del "revival". Gli entusiasti ascoltatori del 1950, infatti, una decina di anni dopo prendono una sbandata per il rock and roll, e Celentano si impossessa del pubblico che ascoltava cornette e tromboni. Bisognera' attendere un' altra decina d' anni, con la fondazione di un locale del calibro del Capolinea, per dare nuovo impulso a queste orchestre, che si distinguono dai tanti gruppi di jazz moderno per il fatto di essere formate quasi esclusivamente da dilettanti, appassionati disposti a veri sacrifici per la musica che amano d' un amore forse naif ma autentico: come autentico ed entusiasta e' il pubblico che li segue, oggi non piu' motivato ideologicamente ma sempre attento e partecipe. Sia che frequenti i locali specializzati, sia che insegua il jazz tra ristoranti, osterie e bar, nei mille anfratti dove il Dixieland continua, a volte inaspettato, a sopravvivere a dispetto del karaoke, della musica diffusa e degli imperanti schermi televisivi. TICINUM JAZZ BAND Domina il sax soprano Un' altra formazione storica, che si rifa' ai piu' classici modelli del Dixieland bianco. La Ticinum jazz band, diretta dal trombonista Francesco Cavallari (uno dei piu' anziani jazzisti in attivita' , gia' membro della Original Lambro Jazz Band), vede la presenza di Carlo Bagnoli al sassofono soprano nell' insolito ruolo di strumento guida, funzione che nel jazz tradizionale viene normalmente assegnata alla cornetta oppure alla tromba. ACCORDIANA BAND Con loro si vola a Chicago L' Accordiana band e' una delle formazioni piu' recenti del panorama "trad" milanese, e deve il proprio nome al fatto che, originariamente, prevedeva l' uso di una fisarmonica, in inglese accordeon, nelle mani del giovane pianista Rossano Sportiello. Oggi il pianoforte e' diventato appannaggio di Cesare Poggi, ben noto specialista di stili arcaici, mentre fra gli altri componenti si possono citare il trombonista Roberto Andriollo, responsabile anche di molti degli arrangiamenti, il cornettista Stefano Bassalti, il banjoista Giorgio Alberighi e Francesco Forti, veterano esperto di ogni tipo di sassofoni e clarinetti. In repertorio rielaborazioni della stagione eroica della musica Dixieland a Chicago. BOVISA JAZZ BAND Invernizzi e i suoi veterani Tra le formazioni in attivita' , la Bovisa jazz band e' quella di piu' antica fondazione: risale addirittura alla fine degli anni Cinquanta, quando la sua denominazione oscillo' per qualche tempo tra diverse varianti, ad esempio Bovisa Stompers e Milan Creole Jazz Band. Il suo ispiratore e' da sempre il trombonista Luciano Invernizzi, una colonna del jazz tradizionale italiano ed europeo. Tra gli altri solisti del gruppo incontriamo il clarinettista Marcello Noia e il pianista Alberto Bandel. La Bovisa si richiama al versante piu' nero della musica tradizionale di New Orleans, in particolare alla figura di Bunk Johnson, trombettista della generazione precedente a quella di Louis Armstrong riscoperto negli anni Quaranta. Il senso del collettivo e' sempre privilegiato rispetto agli assolo dei singoli musicisti, nel tentativo di ritrovare una coralita' che affonda le radici nelle antiche comunita' nere americane. JAMBALAYA SIX Un gruppo tutto da gustare I Jambalaya Six sono un ampliamento della Swinghera (umoristico adattamento in chiave jazz della classica "Ringhera" milanese), quartetto fondato nel lontano 1962 dal sassofonista e clarinettista Vittorio Castelli. La jambalaya e' un saporitissimo piatto della cucina della Louisiana, che mischia molluschi, maiale e spezie varie, citato con golosita' da Louis Armstrong nella propria autobiografia; e proprio ad Armstrong, periodo anni Quaranta, e al suo antico trombonista Kid Ory, si ispirano i musicisti della formazione, nella quale ritroviamo Luciano Invernizzi, leader della Bovisa jazz band (gli "scambi culturali" sono frequenti tra questi gruppi, i cui repertori spesso si sovrappongono); alla tromba si ascolta Fabrizio Cattaneo, e la sezione dei fiati e' insolitamente completata da una coppia di sassofoni, suonati dal fondatore e da Chicco Zanaboni. Alla batteria uno dei piu' giovani e apprezzati specialisti del genere, Walter Ganda. RIVERBOAT STOMPERS Sorpresa, una donna in formazione E' una band "d' importazione", dal momento che viene da Pavia, ma le sue principali occasioni di lavoro sono in territorio milanese. Tra le caratteristiche piu' notevoli dei Riverboat Stompers vanno annoverate la particolare originalita' degli arrangiamenti, che rielaborano i classici di tutto il repertorio tradizionale con una sensibilita' che tiene conto della differente situazione storica, e la rarissima presenza di una donna nell' organico, la banjoista Nanna Freddi. Leader della formazione e' il trombettista Paolo Gaiotti, mentre il trombone e' affidato a Duccio Castelli, cugino del sassofonista Vittorio. Ci sono anche i "Goganga" con l' asse per lavare Il repertorio dei tradizionalisti milanesi non si chiude certo qui. Bisognerebbe citare molti altri musicisti, primo fra tutti il sassofonista Paolo Tomelleri, artefice di molti gruppi e, in ambito strettamente "originario", animatore della storica Foggy City Dixieland Band; ma un elenco completo e' impossibile, in un ambiente nel quale un sano dilettantismo rende chiunque, dall' impiegato al professionista, un "mister Hyde" con la cornetta nascosta sotto la giacca. Ricordiamo qualche nome: la Hopeless Jazz Band, la "Banda senza speranza" di Gino Valdegrani; i Milano Rhythm Kings del glorioso Giorgio Alberti; la Olympia Ragtime Band di Roberto Bacciocchi; il Creole Trio, ibrido fra New Orleans e lo swing; fino ai gruppi piu' vicini alle radici folcloriche del jazz, che usano strumenti fatti in casa come il "washboard" (l' asse per lavare): tra loro gli Old Fellows e i Goganga Jazz Ramblers. A Milano, si direbbe, c' e' posto per tutti.
Sessa Claudio


Corriere della Sera

giovedì 2 aprile 2009

«Tutto il jazz senza peli sulla tromba»

«Tutto ciò che fate, fatelo con personalità. Cavate fuori, piegate, pettinate quelle note. Ecco, questo è il jazz!». Il vecchio Danny Barker, suonatore di banjo che aveva diviso il palco con Louis Armstrong, la sapeva lunga davvero. E in quei suoi modi da capobanda di una volta, stava costruendo anche il futuro di una coppia di fratellini che avrebbero fatto strada. I loro nomi: Branford e Wynton Marsalis.

Il primo, musicista eclettico e sempre à la page, passa con disinvoltura dal jazz allo hip-hop sotto il nome di Buckshot LeFonque, e lo si è visto molti anni nei dischi di Sting oltre che accanto al fratello, per lungo tempo.

Wynton Marsalis, invece, è semplicemente un mito: il jazzista più famoso al mondo, tra i vivi. Il custode e l’interprete della tradizione, quella che parte da New Orleans, dove è nato, e arriva fino alle big band che swingano anche mentre mangiano a fine concerto. Lui è il simbolo del virtuosismo, del successo di pubblico, del jazz tradizionale. E ne porta su di sé gli onori e gli oneri. O meglio le critiche. Dire Wynton Marsalis, infatti, significa oggi dire un jazz che non si evolve, che ha paura di confrontarsi con le contaminazioni europee, con i suoni dell’elettronica, con le nuove culture. E forse è anche vero. Ma ogni scelta, se fatta con intelligenza, merita rispetto. Oggi, oltre che con gli innumerevoli dischi, ci si può avvicinare al Wynton-pensiero anche grazie ad un suo libro, uscito per Feltrinelli, intitolato Come il jazz può cambiarti la vita (pp. 165, euro 14).

Ai Marsalis il jazz ha proprio cambiato la vita. Anzi l’ha decisamente occupata del tutto. L’esempio discografico più divertente è del 2003 e si chiama “The Marsalis Family”. A suonarlo ci sono il babbo Ellis al piano, i figli Branford al sax, Wynton alla tromba, Delfeayo al trombone e Jason alla batteria. Così è cresciuto Wynton e non ci ha messo molto a farsi notare dal grande pubblico, grazie anche a nove Grammy Award (il primo poco più che ventenne) e perfino un Premio Pulitzer, per una jazz-opera sullo sfruttamento dei neri ridotti in schiavitù.

L’improvvisazione, la percezione del suono, il sapore sottile dello swing, l’importanza storica del jazz e poi il razzismo: la riflessione di Marsalis nel libro è cristallina come il suono della sua tromba. Ed è lineare come lo stile di questo conservatore di lusso.

Finita la teoria, parte la carrellata dei grandi nomi. Le parole più dolci sono riservate all’indistruttibile Art Blakey, il grande batterista che prese Wynton nel suo gruppo (i Jazz Messengers) quando ancora era un ragazzino. Il suo motto, per spiegare come si costruisce un ritmo variegato e complesso sulla batteria jazz era: «Non far mai sapere alla mano destra cosa fa la sinistra».

Ogni ritratto nel libro è l’occasione per un giudizio sulla musica e sugli stili: Louis Armstrong, il più bravo tra i più bravi. John Coltrane, dall’abisso della droga alle vette della spiritualità fino all’approdo verso l’astrattismo. Duke Ellington: «Un tocco della sua mano sul pianoforte e la luna entrava in una stanza». E ancora, Miles Davis, che seppe creare uno stile introspettivo ed emozionante, dotato di una personalità («era uno che non si lasciava tirare merda addosso in un periodo in cui i neri ne prendevano fin troppa») con la quale ogni trombettista deve fare i conti. Eppure anche lui, quando fu l’epoca del rock, si vendette al mercato e si ritrovò a inseguire le mode. Parole severe e tristi, quelle di Marsalis su Miles. A pensar male ci sta dentro quel po’ di invidia che si deve pagare verso il mito.

Marsalis ha la sua visione inossidabile della musica: tutto viene dal blues e per quanto ci si evolva, non si può tagliare il cordone ombelicale con la tradizione, perciò gli riesce insopportabile l’avanguardia europea che ha creato il vuoto insignificante di molta musica di oggi. Anche in questo caso, questione di punti di vista, ma Wynton stupisce di nuovo quando racconta con ammirazione e affetto di Ornette Coleman che, come dire, non è proprio un tradizionalista. Ci sono delle note, dice Marsalis, che si armonizzano con le persone, che hanno con esse una vibrazione solidale: «Anche Ornette Coleman lo fa. Andai da lui una sera e suonammo fino alle quattro del mattino. Alcune note che suonava... be’ non avevano niente delle note in quanto tali; erano qualcosa che lui sentiva e capiva, e pure tu sentivi e capivi». L’amore per questo musicista, così lontano dal suo stile, deriva dal fatto che, pur nel percorso innovativo, non ha mai abbandonato lo spirito più puro del jazz, che risiede nel blues e risiede nella capacità di ascoltare gli altri e di creare musica insieme. E Ornette ha sensibilità da vendere. Come dice Marsalis: «Qualcuno alza un sopracciglio e lui lo suona».

Il bello di avere un padre come Ellis era che fin da ragazzino Wynton poté frequentare i più grandi jazzisti della scena. Mica poco. Però non c’era da illudersi di poter essere un raccomandato, perché quel mondo lì non ne sopportava proprio la puzza, e nessuno te le mandava a dire, nemmeno quelli che oggi passano per i giocherelloni del jazz. Uno su tutti, Dizzy Gillespie, fotografato da Marsalis in una scenetta che la dice lunga: «La prima volta che incontrai Dizzy avevo quindici anni. Era Rosie’s, un club in Tchoupitoulas Street, a New Orleans. Mio padre gli disse: “questo è mio figlio. Suona la tromba”. Dizzy era in piedi vicino alla porta dei camerini, mi porse la sua tromba e disse: “Suonami qualcosa, ragazzo”. Aveva un bocchino molto piccolo. Non c’ero abituato, ne venne fuori un poooot. Non sapeva cosa dire con mio padre lì presente, perciò emise solo uno “Yeaaah” così prolungato che sembrava fatto apposta per alleviare l’imbarazzo del momento. Poi si chinò e mi disse nell’orecchio: “Esercitati, coglione”».
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FONTE :http://oknotizie.virgilio.it/go.php?us=1351089b3927baa
Guido Bosticco . Quotidiano LIBERO (30-03-2009)