giovedì 2 aprile 2009

«Tutto il jazz senza peli sulla tromba»

«Tutto ciò che fate, fatelo con personalità. Cavate fuori, piegate, pettinate quelle note. Ecco, questo è il jazz!». Il vecchio Danny Barker, suonatore di banjo che aveva diviso il palco con Louis Armstrong, la sapeva lunga davvero. E in quei suoi modi da capobanda di una volta, stava costruendo anche il futuro di una coppia di fratellini che avrebbero fatto strada. I loro nomi: Branford e Wynton Marsalis.

Il primo, musicista eclettico e sempre à la page, passa con disinvoltura dal jazz allo hip-hop sotto il nome di Buckshot LeFonque, e lo si è visto molti anni nei dischi di Sting oltre che accanto al fratello, per lungo tempo.

Wynton Marsalis, invece, è semplicemente un mito: il jazzista più famoso al mondo, tra i vivi. Il custode e l’interprete della tradizione, quella che parte da New Orleans, dove è nato, e arriva fino alle big band che swingano anche mentre mangiano a fine concerto. Lui è il simbolo del virtuosismo, del successo di pubblico, del jazz tradizionale. E ne porta su di sé gli onori e gli oneri. O meglio le critiche. Dire Wynton Marsalis, infatti, significa oggi dire un jazz che non si evolve, che ha paura di confrontarsi con le contaminazioni europee, con i suoni dell’elettronica, con le nuove culture. E forse è anche vero. Ma ogni scelta, se fatta con intelligenza, merita rispetto. Oggi, oltre che con gli innumerevoli dischi, ci si può avvicinare al Wynton-pensiero anche grazie ad un suo libro, uscito per Feltrinelli, intitolato Come il jazz può cambiarti la vita (pp. 165, euro 14).

Ai Marsalis il jazz ha proprio cambiato la vita. Anzi l’ha decisamente occupata del tutto. L’esempio discografico più divertente è del 2003 e si chiama “The Marsalis Family”. A suonarlo ci sono il babbo Ellis al piano, i figli Branford al sax, Wynton alla tromba, Delfeayo al trombone e Jason alla batteria. Così è cresciuto Wynton e non ci ha messo molto a farsi notare dal grande pubblico, grazie anche a nove Grammy Award (il primo poco più che ventenne) e perfino un Premio Pulitzer, per una jazz-opera sullo sfruttamento dei neri ridotti in schiavitù.

L’improvvisazione, la percezione del suono, il sapore sottile dello swing, l’importanza storica del jazz e poi il razzismo: la riflessione di Marsalis nel libro è cristallina come il suono della sua tromba. Ed è lineare come lo stile di questo conservatore di lusso.

Finita la teoria, parte la carrellata dei grandi nomi. Le parole più dolci sono riservate all’indistruttibile Art Blakey, il grande batterista che prese Wynton nel suo gruppo (i Jazz Messengers) quando ancora era un ragazzino. Il suo motto, per spiegare come si costruisce un ritmo variegato e complesso sulla batteria jazz era: «Non far mai sapere alla mano destra cosa fa la sinistra».

Ogni ritratto nel libro è l’occasione per un giudizio sulla musica e sugli stili: Louis Armstrong, il più bravo tra i più bravi. John Coltrane, dall’abisso della droga alle vette della spiritualità fino all’approdo verso l’astrattismo. Duke Ellington: «Un tocco della sua mano sul pianoforte e la luna entrava in una stanza». E ancora, Miles Davis, che seppe creare uno stile introspettivo ed emozionante, dotato di una personalità («era uno che non si lasciava tirare merda addosso in un periodo in cui i neri ne prendevano fin troppa») con la quale ogni trombettista deve fare i conti. Eppure anche lui, quando fu l’epoca del rock, si vendette al mercato e si ritrovò a inseguire le mode. Parole severe e tristi, quelle di Marsalis su Miles. A pensar male ci sta dentro quel po’ di invidia che si deve pagare verso il mito.

Marsalis ha la sua visione inossidabile della musica: tutto viene dal blues e per quanto ci si evolva, non si può tagliare il cordone ombelicale con la tradizione, perciò gli riesce insopportabile l’avanguardia europea che ha creato il vuoto insignificante di molta musica di oggi. Anche in questo caso, questione di punti di vista, ma Wynton stupisce di nuovo quando racconta con ammirazione e affetto di Ornette Coleman che, come dire, non è proprio un tradizionalista. Ci sono delle note, dice Marsalis, che si armonizzano con le persone, che hanno con esse una vibrazione solidale: «Anche Ornette Coleman lo fa. Andai da lui una sera e suonammo fino alle quattro del mattino. Alcune note che suonava... be’ non avevano niente delle note in quanto tali; erano qualcosa che lui sentiva e capiva, e pure tu sentivi e capivi». L’amore per questo musicista, così lontano dal suo stile, deriva dal fatto che, pur nel percorso innovativo, non ha mai abbandonato lo spirito più puro del jazz, che risiede nel blues e risiede nella capacità di ascoltare gli altri e di creare musica insieme. E Ornette ha sensibilità da vendere. Come dice Marsalis: «Qualcuno alza un sopracciglio e lui lo suona».

Il bello di avere un padre come Ellis era che fin da ragazzino Wynton poté frequentare i più grandi jazzisti della scena. Mica poco. Però non c’era da illudersi di poter essere un raccomandato, perché quel mondo lì non ne sopportava proprio la puzza, e nessuno te le mandava a dire, nemmeno quelli che oggi passano per i giocherelloni del jazz. Uno su tutti, Dizzy Gillespie, fotografato da Marsalis in una scenetta che la dice lunga: «La prima volta che incontrai Dizzy avevo quindici anni. Era Rosie’s, un club in Tchoupitoulas Street, a New Orleans. Mio padre gli disse: “questo è mio figlio. Suona la tromba”. Dizzy era in piedi vicino alla porta dei camerini, mi porse la sua tromba e disse: “Suonami qualcosa, ragazzo”. Aveva un bocchino molto piccolo. Non c’ero abituato, ne venne fuori un poooot. Non sapeva cosa dire con mio padre lì presente, perciò emise solo uno “Yeaaah” così prolungato che sembrava fatto apposta per alleviare l’imbarazzo del momento. Poi si chinò e mi disse nell’orecchio: “Esercitati, coglione”».
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FONTE :http://oknotizie.virgilio.it/go.php?us=1351089b3927baa
Guido Bosticco . Quotidiano LIBERO (30-03-2009)

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